Rodrigo Duterte, presidente delle Filippine dal 30 giugno 2016, non è il tipo da trincerarsi dietro il linguaggio diplomatico. Se in meno di sette settimane la polizia e i paramilitari hanno ucciso quasi duemila persone considerate, a torto o a ragione, protagoniste di storie di droga, lui reagisce così alle critiche: «Dimenticate le norme sui diritti umani. Da presidente faccio quello che ho fatto come sindaco. Spacciatori, rapinatori, sfaccendati perdigiorno: è meglio che ve ne andiate. O vi consegnate o vi ucciderò».
È tutto ufficiale quanto sta accadendo nelle Filippine, messo nero su bianco negli atti parlamentari. Per l’esattezza sono 1.916 al 22 di agosto scorso. Il numero uno delle forze di repressione ha spiegato che 716 ammazzati vanno attribuiti direttamente ad agenti di polizia, gli altri 1.200 sono vittime di «operazioni condotte al di fuori del controllo della polizia». Sono i “vigilantes”, cioè i paramilitari: arrivano sul luogo di operazione con tre o quattro moto senza targa, in borghese, e sparano ancora prima di parlare. In 42 giorni 1.916 morti ammazzati significa una media di oltre 45 al giorno. Ovviamente, quanto sta accadendo nelle Filippine ha suscitato interrogativi e prese di posizione sia all’interno del Paese sia nel resto del mondo. La voce più critica viene dalla senatrice Leila de Lima, la presidente della commissione diritti umani. Ma Rodrigo Duterte non si è scomposto e risponde in modo sprezzante a chiunque non applauda le sue scelte politiche. Anche se le critiche vengono da organizzazioni internazionali a cui le Filippine aderiscono.
I risultati del predecessore di Duterte, Benigno Aquino III, non lasciavano immaginare questa deriva populista. Negli anni di Aquino, le Filippine hanno espresso una capacità di sviluppo come poche altre nazioni: dal 2010 al 2015 gli investimenti stranieri sono cresciuti in modo esponenziale, l’inflazione è rimasta bassa, il deficit import-export in riduzione, la valuta stabile, le rimesse dei milioni di emigrati in costante aumento. Nel 2015 ha occupato il quarto posto nel mondo come tasso di crescita, nel primo trimestre del 2016 è stato il Paese asiatico a crescere al più alto ritmo. Risultato: la classe media si è espansa, la povertà è diminuita. Nulla faceva prevedere questa deriva. In realtà, le Filippine non hanno risolto il loro principale problema. Le scelte politiche del Paese e gli uomini che comandano vengono cioè sempre dalle stesse famiglie. In 73 delle 81 province in cui è diviso l’arcipelago, si ritrovano da sempre nei posti di responsabilità locale e nazionale i rappresentanti di 178 cognomi. Sono loro a far eleggere nel parlamento nazionale il 70 per cento dei membri. E il 40 per cento dei ricchi è riuscito negli ultimi dieci anni a convogliare nei propri affari il 75 per cento della ricchezza prodotta. Insomma, il paese è saldamente nelle mani di una oligarchia.
Fonte: L‘Espresso
Duemila morti in poche settimane. Anche in questo paese ci possiamo dimenticare del rispetto dei diritti umani.
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